Tre città di quel paese – Sarajevo, Mostar, Srebrenica – sollecitazioni diverse, che si propongono nel contatto con la gente e la loro storia passata e presente.
Sarajevo è la capitale. La memoria si è sostanziata con riflessi contraddittori nell’assetto politico vigente, e
accende conseguenti opportunità di riflessioni e dibattito.
Mostar è tutta nel vecchio ponte, simbolo ma anche cuore dal battito lento di una vita sociale e politica che non riesce a scaldare le ali periferiche della città, ancora frantumata nella realtà dei ghetti, croati e musulmani.
E infine Srebrenica, la città delle donne, la città del dolore.
12.000 morti (istituzionalmente se ne riconoscono 8.372, ma nella pratica i dispersi sono 4.000 in più), e ogni anno, l’11 luglio, la grande cerimonia per la messa in terra di quelle centinaia di corpi, che vengono ancora ritrovati, in fosse di nuova individuazione.
È di Srebrenica Hatidza Mehmedovic’, la protagonista del film, ed è stato subito chiaro che solo a lei, nella composta e altera capacità di assunzione del lutto (nel genocidio del 1995 ha perso i due unici figli, il marito, i fratelli, il padre), poteva essere affidata la trasmissione di un carico emotivo fortemente presente all’affettività dell’autrice-regista.
Il film è stato suggerito dal bisogno di farsi emotivamente partecipe, con ruolo d’osservazione attiva, del destino di certi luoghi la cui storia è segnata da forte azione d’eventi drammatici.
Si è scelta la Bosnia perché è lì che si è consumata una delle guerre più aspre, non solo nella crudezza degli sviluppi sanguinosi, ma anche e soprattutto per la crisi gravissima delle relazioni nel corpo sociale, per la difficilissima pacificazione che ancora oggi stenta a ricomporre le evidenti insoddisfazioni dei diversi elementi etnici.
Perché il tema dell’identità – direi più propriamente quello della “nazionalità”, intesa con accezione negativa – si apre ancora a espressioni di conflitto.
Perché è già possibile una valutazione del primo dopoguerra; delle risultanti di ricaduta dell’excursus bellico, nella cultura e nell’economia.
Per quella ricostruzione che stenta a compiersi, o forse peggio che stenta a essere “intrapresa”, poiché l’idea stessa di “futuro” è gravemente compromessa.
Perché resta da fare un’accurata riflessione intorno ai principi posti a fondamento della recente democrazia, evidentemente non ispirati al sodalizio Stato-Popolo, ma confusamente discendenti da regolamenti del passato regime.
Perché s’impone l’accoglienza, con valore di simbolo – assolutamente non “santuari” – dei luoghi della memoria recente, con assunzione sentimentale di quei significati che ne discendono da parte della collettività tutta, nella poliedrica composizione.
Perché il privato dei singoli in molti casi è definitivamente compromesso, esistenze non più recuperabili alla pienezza del vivere.
Perché bisogna che siano rispettati i diritti dell’infanzia, e che per loro – almeno per i bambini – l’istruzione pubblica voglia farsi divulgatrice di valori per la concezione di un mondo non diviso, di un popolo unico.
Tutto questo era da visitare, da osservare con discreta e rispettosa curiosità di conoscere.
La presenza di Hatidza Mahmedovic’ – presidente delle madri di Srebrenica, gravemente colpita essa stessa dalla morte dei due unici figli, del marito e dei congiunti di sesso maschile nel corso del genocidio, a Srebrenica nel 1995 – porta in scena la verità di una tragedia di agghiacciante vastità: oltre le gravissime perdite causate dal conflitto in ogni città e contrada, con danno di tutti i gruppi etnici in campo, soltanto nell’area di Srebrenica sono caduti per mano dell’esercito serbo più delle 8.500 vittime ufficialmente riconosciute dal tribunale dell’Aja, per la gran parte di giovane età e sesso maschile; il viaggio di Hatidza tra memoria e attualità ha consentito lo sviluppo di un percorso di presa emotiva e, nonostante l’asperità del tema, il definirsi di un racconto poetico.