Nema problema!
Lo sguardo non convenzionale di un giovane storico, per emozionarsi (e riflettere) sulle strade slave del Sud.
In treno, in macchina, in aereo, in autobus, in nave, in autostop, a piedi.
Dieci anni di viaggi, dal 2000 al 2010.
Dieci anni dormendo in alberghi, pensioni, affittacamere, campeggi, appartamenti metropolitani e case contadine, talvolta per terra, sul pavimento, in strada, sul cemento, sulla sabbia, nei prati.
Dieci anni di passione, di studio, di incontri e di scontri, in un labirinto di popoli, di confini, di memorie divise.
Uno sguardo non convenzionale sulle Jugoslavie, frammenti di paesi nati sulle macerie di quella che fu la gloriosa Jugoslavia di Tito, spazzata via dalla storia e dalla guerra.
A metà tra il diario intimo e il reportage sociopolitico, un libro per balcanizzarsi senza perdere la ragione.
«Lo sai che non devi fotografare al confine?»
«Ma certo.»
«L’hai visto il cartello, no?»
«Ma certo», ripeto con fare rassicurante. «L’ho anche fotografato!»
Zoran, 28 anni, cammina, ripercorre un’infanzia di guerra, la “strage della fila del pane”, il disegno jugoslavo trasformatosi in “prigione dei popoli”,lui serbo sarajevese, con un padre che ha combattuto nelle fila dell’esercito bosniaco contro gli assedianti.
Seguendo opposti percorsi, gli strascichi ideologici della guerra portano alla periferia, al quartiere di Lukavica, ad un bar che si chiama Sing Sing e poi a casa di Saša, giovane professore di storia arroccato insieme ai “suoi” a presidio dell’ideale nazionalista serbo.
Aziz, invece, è un ex soldato dell’Armija bosniaca, impiegato nella difesa di Srebrenica e fortunosamente scampato al massacro.
Ora vive a Ilidža, sobborgo della capitale, ma il suo è un viaggio a ritroso, al luogo dove un tempo c’era il villaggio di sua madre, sulla Drina, il fiume che separa la Bosnia dalla Serbia, un fiume che è anch’esso una madre, ma irrimediabilmente tinto di sangue.
Un altro villaggio cancellato dalla guerra e ora di nuovo abitato e ricostruito: Sućeska, sulle montagne sopra Srebrenica.
Mohamed è lo šumar, il guardaboschi.
E’ tornato a pascolare il suo gregge, a occuparsi del bosco e del taglio del legname, tutti i giorni percorre gli stessi boschi attraverso i quali è fuggito nei giorni della caduta di Srebrenica.
L’11 Luglio 1995 i nazionalisti serbi comandati da Mladic entrano in città, migliaia di persone cercano rifugio presso la base dei caschi blu olandesi, i maschi sopra i dodici anni vengono separati dalle donne e sistematicamente trucidati nei giorni successivi.
Qui Hajra ha visto per l’ultima volta suo marito, mentre i serbi lo strattonavano via.
I suoi resti sono stati ritrovati in una fossa comune vicino a Zvornik.
Del figlio Nino, che Hajra aveva salutato poche ore prima mentre prendeva la via dei boschi, non ha invece più saputo nulla.
Ora la donna vive sola nella casa di Srebrenica, in cui ha voluto tornare.
A Tuzla è stato istituito l’ICMP (International Commission of Missing Persons), il personale lavora al recupero dei resti ancora ammassati nelle fosse comuni o dispersi nei boschi, alla ricomposizione dei corpi, al riconoscimento attraverso l’esame del DNA e infine alla restituzione alle famiglie.
E’ un processo difficile e doloroso, ma probabilmente necessario perché il tempo ricominci a scorrere.