L’invasore Sabaudo

Accanto alla storia ufficiale del Risorgimento, che vede nella creazione dell’Italia unita una rivoluzione portata avanti in nome della civiltà e del progresso, ce n’è un’altra, rimasta a lungo ai margini, semiclandestina.
Essi bruciano ancora cerca di dare voce e corpo a questa storia parallela, in cui l’Unità d’Italia non è altro che un processo di colonizzazione del Meridione, ancora oggi in corso.
Essi bruciano ancora articolo 01

Il primo dei molti spunti interessanti che rilascia, a volte persino suo malgrado, un film come Essi bruciano ancora, riguarda la sua collocazione festivaliera. Se per Arturo Lavorato e Felice D’Agostino la presenza al Torino Film Festival segna quasi un ritorno a casa (il duo vinse il premio per il miglior documentario nel 2005 con Il canto dei nuovi emigranti, ispirato da una poesia di Franco Costabile), il tema attorno al quale ruota l’intero film può apparire senza troppe forzature come un grido di battaglia lanciato contro quello che fu il regno Sabaudo. I morti ammazzati, i morti per fame, i morti per stenti che lasciò dietro di sé l’Unità d’Italia, con quella spinta solo apparente verso un progresso in realtà irrealizzabile in quei modi e con quelle forme, tornano in vita per reclamare il loro diritto all’odio, alla contrapposizione, alla lotta contro un potere egemonico che negli ultimi centocinquanta anni e passa ha visto il sud dell’Italia come un territorio occupato, annesso a un regno del nord con cui aveva ben poco a cui spartire, perfino una lingua dissimile nonostante la matrice comune. Non usano mezzi termini, D’Agostino e Lavorato – va comunque fatto notare come Essi bruciano ancora sia la sintesi inevitabilmente in parte squilibrata di un lavoro ben più collettivo, che ha messo in moto visioni e intelligenze di una terra troppo spesso costretta a un silenzio martoriato e sottopagato – e compiono una scelta netta, che non può che creare elementi di dibattito: l’Unità d’Italia, dicono, fu una colonizzazione, un massacro di povere genti, lo sfruttamento di manodopera là dove (in Piemonte) quest’ultima stava venendo meno. Nulla di poetico o romantico, ma solo un’esigenza strettamente economica. Un’Unità figlia del Capitale, dunque, e delle sue lunghe dita ghermenti.
In quest’ottica anche Giuseppe Garibaldi, sulla cui schiena di pietra si apre Essi bruciano ancora, non può che essere un connivente o, nella migliore delle ipotesi, un romantico combattente che non capì di essere stato usato a uso e consumo di una forza crudele e superiore a lui e ai suoi fedeli sodali. A Garibaldi D’Agostino e Lavorato preferiscono il piglio battagliero e mai compromissorio di Carlo Pisacane, che morì lottanto e firmando con gli altri ventiquattro cospiratori questo celebre inno alla lotta: «Noi qui sottoscritti dichiariamo altamente, che, avendo tutti congiurato, sprezzando le calunnie del volgo, forti nella giustizia della causa e della gagliardia del nostro animo, ci dichiaramo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non risponderà al nostro appello, non senza maledirlo, sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange de’ martiri italiani. Trovi altra nazione al mondo uomini, che, come noi, s’immolano alla sua libertà, e allora solo potrà paragonarsi all’Italia, benché sino a oggi ancora schiava».

Si può facilmente rimanere spiazzati da Essi bruciano ancora, e proprio la sua natura di creatura multi-cefala, costruita attorno alla passione a alle idee di un collettivo di persone, la rende da un lato stratificata e dall’altro vicina allo sbandamento in più di un’occasione. La struttura narrativa, costruita su un’enfasi del dramma che guarda da un lato a “straubismi” e dall’altro a una partecipazione tutt’altro che astratta ma semmai verace e sanguigna, si perde in più di un rivolo e rischia anche in alcune occasioni di andare in contraddizione con se stessa. Ma forse è giusto così. Allo stesso modo il tentativo di creare un’aura internazionalista, leggendo le vicende dell’ultimo secolo in Calabria e nel sud Italia facendo ricorso ai testi di Frantz Fanon, alle poesie di Aimé Césaire, al celeberrimo intervento sul debito africano di Thomas Sankara alla venticinquesima conferenza dell’OUA (Organizzazione per l’unità Africana) di Addis Abeba, nel luglio del 1987, sembra a tratti quasi un retaggio istintivo, privo di una reale profondità.
Ma, ed è giusto ripetersi, va bene così. Il senso di un’operazione complessa come Essi bruciano ancora non è quello di organizzare una contro-storia puntellata di atti, dati, sentenze e memorie. Si vive nel pieno di un pamphlet, di un j’accuse retorico che ha bisogno solo del popolo, dei volti del popolo e delle voci del popolo, per trovare il proprio significato. Piangendo il sangue versato da armi piemontesi, il film piange a sua volta sangue, si fa sangue, scorre e va al cervello. Un atto di ribellione che parte di pancia, e costringe il cervello ad assecondare questa necessità.

Letto in quest’ottica Essi bruciano ancora, pur con le sue ingenuità, i suoi buchi, la sua posizione preconcetta – la questione meridionale meriterebbe un approfondimento storico, antropologico, sociale ed economico ben più strutturato, anche in un’ottica puramente guerrigliera; in tal senso mettere l’uno di fronte all’altro questo film e Noi credevamo di Mario Martone, per rimanere all’ultimo decennio, è operazione da ritenere quasi indispensabile –, acquista un valore di primaria importanza, e può perfino dimostrarsi una delle opere più interessanti venute alla luce nel cinema italiano dell’ultimo anno. Un’opera in cui è necessario credere, ma può essere altrettanto fondamentale creare una dialettica, per edificare, di sovrastruttura in sovrastruttura, il primo passo verso una rivoluzione che non liberi solo il sud d’Italia e del mondo. Ma che liberi tutti.

Raffaele Meale

29/11/2917

https://quinlan.it/2017/11/29/essi-bruciano-ancora/

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