Il palpito degli esuli che, giunti a Fertilia in quegli anni, ancora la abitano, viene raccolto dalla giornalista Francesca Angeleri, nipote di esuli, che si perde qui nelle vie intitolate alle città istriane, ritrovando un pezzo della sua stessa storia.
Vi troneggiano edifici di stampo fascista costruiti dal regime nel 1936 per accogliere inizialmente la popolazione in eccesso del ferrarese, destinati poi dal 1947 ai profughi giuliano dalmati.
Il documentario si addentra nelle vicende che dalla sua nascita l’hanno portata a oggi, anche attraverso il fil rouge del cibo.
Come in Magna Istria, la preparazione di ricette istriane, qui riviste spesso dalla tradizione sarda, rendono possibile l’esercizio della memoria del doloroso esodo e la non meno faticosa integrazione dei profughi che vi trovarono rifugio, fino a ad arrivare a sentirsi a casa.
Perché, a differenza di quello che successe in altri luoghi, in questa parte di mondo germogliò l’albero dell’accoglienza, che favorì l’integrazione e la rinascita, facendo di Fertilia esempio vincente d’incontro di culture che qui si tesero e si tendono la mano: la sarda e la giuliano-dalmata, l’algherese e la ferrarese.
Il racconto a Fertilia riannoda fili emotivi a partire dagli oggetti più semplici e cari appartenuti a quei profughi, come quelli trovati in un annuncio che muovono la protagonista verso l’isola, o quelli custoditi in un Museo della Memoria dell’esodo, assolutamente vibrante di quel tempo doloroso.
Vedi: MAGNA ISTRIA (Cristina Mantis, 76′, Italia – 2010)