Per i tre “montagnini” sono anni di viaggi interminabili su uno scalcinato furgone, condividendo le esperienze di vita alternative e le battaglie che animano il movimento antagonista con tutta l’intensità e lo slancio della gioventù.
Poi, come tutte le storie, anche il loro sodalizio si chiude.
Le vite di ognuno non sono più compatibili con l’impegno che il progetto Kina richiede: lavoro, figli e nuovi interessi domandano scelte diverse.
Quei tre ragazzini di montagna sono oggi dei cinquantenni, con le loro professioni, le loro passioni, le loro famiglie.
A voltarsi a guardarli, quegli anni sembrano portarsi dietro la domanda che suggeriva il titolo dell’album più riuscito dei KINA: Se ho vinto, se ho perso…
NOTA DEL REGISTA
Ci sono storie che meritano di essere raccontate.
Alcune le scopri un giorno, per caso. E il giorno dopo sei pronto per affrontarle. Per dare loro una forma. Così è stato con il mio lavoro precedente, Mare Carbone.
Altre hanno bisogno di tempo. Restano lì, nel cassetto dei ricordi. Si stratificano, si aprono a diversi punti di vista, maturano in silenzio, senza che tu te ne accorga.
Cambiano, mentre tu stai cambiando. Crescono con te. Fino a quando, a un punto del tuo percorso, senti che il momento è arrivato. Che quella storia ti appartiene e raccontarla significa anche raccontarti. E che farlo è diventata una necessità.
Questo è il caso di Se ho vinto se ho perso.
Pensavo da anni alla storia – la piccola leggenda – dei Kina, per fare un film su di loro.
Mancava solo una cosa: la chiave per non ridurre il film a un semplice documentario musicale, che poi sarebbe stato il più grande tradimento possibile nei loro confronti: perché ciò che rende i Kina davvero interessanti – forse unici – nel panorama underground europeo, è proprio l’impossibilità di separare la musica dalla vita, il bisogno di espressione dall’impegno quotidiano.
E non si poteva raccontare tutto con distacco, senza farsi coinvolgere…